Il viaggio è stato, per secoli, lo strumento dell'esplorazione. Il viaggiatore apparteneva a una ristretta élite di ricchi o di eccentrici (o di tutti e due), e il suo attraversare paesi e continenti, mari e montagne, significava scoprire non solo terre molto poco o per nulla conosciute, popoli e costumi di altre civiltà, ma anche le difficoltà del movimento. Strade fangose, infestate da briganti, assenza di mezzi di trasporto, guerre, malattie, animali feroci. Quello era viaggiare. E significava, peraltro, un investimento costoso anche in termini di ricchezze. I poveri non viaggiavano: migravano o, tutt'al più, facevano pellegrinaggi.
Va da sé che i ricchi esploratori dei secoli passati, soprattutto quelli dell'Ottocento, sono ammirati e le loro imprese rimpiante. Tali viaggiatori incarnavano il sogno impossibile di ognuno di noi: avere abbastanza risorse da potersi muovere nel mondo per tutto il tempo desiderato, disponendo di tutti i mezzi possibili. E con questi privilegi scoprire civiltà (presenti e passate), terre, sorgenti, montagne, animali, piante...
Viaggio e scoperta, insomma, sono un tutt'uno. Il viaggio così concepito ha come centro l'oggetto della scoperta. (...)
Poi, però, le cose sono cambiate. Il viaggio ha cessato poco a poco di essere un viaggio di scoperta ed è diventato un viaggio "sentimentale". Le impressioni del viaggiatore hanno iniziato a prevalere sulla descrizione oggettiva degli ambienti e delle persone. I motivi sono semplici: i mezzi di comunicazione di massa hanno reso sempre più omogeneo il pianeta. (...)
Per questo, il viaggiatore-narratore moderno, propone soprattutto un'analisi soggettiva di ciò che vede, la scoperta è soprattutto una scoperta di se stesso. E il viaggio è fatto di emotività in presa diretta su un ambiente solo parzialmente estraneo.
Romeo Bassoli, Portiamo anche i bambini