Un progetto di Sabina de Tommasi per il Teatro Biblioteca Quarticciolo di Roma

Il progetto si è sviluppato da febbraio a maggio 2010.
Questo blog è stato creato per riportare le varie tappe dei laboratori;
elencare le bibliografie costruite insieme ai partecipanti; mostrare foto e video;
dare modo di ascoltare la lettura dei brani scelti.

Dal 25 luglio al 12 agosto 2010 ha accolto alcune riflessioni e provocazioni sul tema dei teatri di cintura e in generale sul lavoro teatrale e culturale decentrato.
Ora vuole segnalare curiosità, percorsi di lettura, suggestioni, appuntamenti, tracce originali dei nostri viaggi. Mandate i vostri suggerimenti a tracciatidiviaggi@gmail.com

La serata di lettura condivisa di quest'anno al Teatro Biblioteca Quarticciolo si è tenuta il 21 aprile 2011. Titolo STORIE MINIME.



sabato 31 luglio 2010

ancora Stefania Fabri...

Non manca solo un Bartolucci, cioè un uomo interno all'organizzazione teatrale il cui sapere non alimenti solo un narcisimo sfrenato ma sia capace di utilizzarlo per la società in cui vive, manca anche una coscienza diffusa dell'insopportabile e inutile egocentrismo delle principali strutture culturali foraggiate con i soldi pubblici che non sentono più in alcun modo il dovere di quello che una volta con una brutta parola si chiamava 'decentramento'; ma dal momento in cui concetti come periferia e centro sono chiaramente superati, se non si sente la necessità di essere 'connessi' con un tessuto culturale diffuso, ci si condanna semplicemente alla fine.

il contributo di Fiona Sansone...

Sicuramente dovrebbero togliersi le vetrine imbellettate, ricordo che la prima volta che sono entrata all'Argentina avevo 18 anni ed ero al mio primo hanno di università nel 2001, dopo un'iniziale capogiro dato da luci, bellezza, magnificenza ho pensato che quel teatro non mi sarebbe mai appartenuto perché anestetizzato, fatto di abbonamenti soporiferi e soprattutto era/è sordo, sordo alla sperimentazione, sordo alla strada così incastonato in cartelloni privi di fragilità, giovinezza ed entusiasmo.
Caro Sergio credo che il teatro dovrebbe partire dalle merende che la signora Piccotti (Signora che abita a pochi metri dal teatro Quarticciolo) portava in teatro, perché scoperto TBQ scoprì la bellezza della comunità, la bellezza di avere un luogo istiuzionalizzato aperto ad incontrare: la signora Piccotti, i ragazzi dei laboratori teatrali da Costituzione a Città di parole, alle piccola ma intensa comunità di Tracciati di viaggi, le persone hanno bisogno di incontrarsi e di avere la possibilità di crescere.
Molto di quello che ho imparato lo devo ad un incontro durante il servizio civile, con Sabina. Lei ha mediato e fatto incontrare un ibrido semisapiente come me, con tante persone che ritengo ora i miei maestri: Barbara Della Polla, Massimo Talone, Ninni Bruschetta, Veronica Cruciani. E grazie a TBQ ho imparato, imparo che i teatri devono essere gestiti da menti piene di bellezza, e non di cagnolini rabbiosi che poi del teatro non apprezzano nulla. E che bisogna lottare per renderli liberi.
Ho considerato TBQ una casa-una palestra per la mia mente e per la mia anima, poi hanno deciso di far diventare i teatri di cintura dei ripostigli, ma siamo tanti a credere e a vedere le pontenzialità. Quello che mi chiedo e perché chi ha fatto il 68 non aiuti noi nati nell'81 a resistere insieme! Le nuove generazioni hanno bisogno solo di una piccola spinta, non siamo del tutto perduti ma voi che dovreste prenderci per mano almeno per un attimo state rinunciando alla bellezza della vostra giovinezza e noi quasi trentenni ci svegliamo in un mondo censurato.

Vedete noi non abbiamo un Bartolucci...

a TBQ "Città di parole", a cura di Veronica Cruciani

un bell'esempio di buona pratica di lavoro laboratoriale e teatrale, in relazione creativa con il territorio



testo Ferdinando Vaselli e Veronica Cruciani
Compagnia Veronica Cruciani
con la collaborazione alla regia Alessia Berardi
musiche originali Sebastiano Forte
assistente alla regia Fiona Sansone
costumi Barbara Bessi
disegno luci Gianni Staropoli
con Veronica Cruciani, Alessia Berardi, Marianna Arbia, Consuelo Cagnati, Elena Chiattelli, Elisa Di Stefano, Giulia Galloni, Andrea Loreti, Mauro Marchetti, Lucia Mattei, Andrea Panichi, Paolo Quintiliani, Giulia Scatà

Protagoniste assolute dello spettacolo, le testimonianze e le storie raccolte che, oltre a costituire la base del lavoro su cui la regista Veronica Cruciani e i partecipanti al laboratorio hanno creato i testi teatrali dello spettacolo, rappresentano la storia del quartiere in cui le persone vivono e in cui vita reale e sogno si incontrano, talvolta confondendosi. Lo spettacolo è la continuazione di Nozze di Borgata (che ha debuttato lo scorso giugno), come spiega Veronica Cruciani: "lo integra e lo arricchisce perché ne rappresenta la prima parte. Ma mentre Nozze di Borgata parlava delle radici del Quarticciolo, ovvero la sua storia più antica narrata dagli anziani, Città di parole porta sul palcoscenico tematiche contemporanee perchè connesse alle nuove generazioni, come il linguaggio mutuato dalla televisione e da internet, o come la massiccia presenza di rumeni sul territorio, oppure come i pendolari che arrivano da Zagarolo e da Cave". Partendo dalle parole dei protagonisti, pendolari, studenti, professori, abitanti, è stato possibile rintracciare un patrimonio d'informazioni che contenesse la memoria del passato e l'esperienza del presente, offrendo così ai giovani la possibilità di accrescere le proprie conoscenze ed esprimerle creativamente, agli anziani la possibilità di valorizzare le proprie memorie. "In questo spettacolo la realtà è importante, il quartiere, la scuola, gli immigrati, i pendolari -continua la regista Cruciani- attraverso il metodo dell'intervista abbiamo scandagliato quelle realtà che si fa fatica a vedere e raccontare. Abbiamo scoperto luoghi e storie dimenticate, ascoltando il vissuto del territorio: giovani, casalinghe, pensionati, stranieri. Attraverso le narrazioni di chi in questi luoghi ci ha vissuto, abbiamo gettato uno sguardo sul quartiere e sulle periferie, ma soprattutto sulle dinamiche che legano il centro e la periferia, la città e i comuni della provincia di Roma." Sul palcoscenico una vecchia foto in bianco e nero. I protagonisti appaiono come dentro un ricordo lontano, ma ancora vivissimo. Un gruppo di persone immobili pronte per essere immortalate raccontano le vite, le storie e i ricordi.

il contributo di Sergio Martin...

Si sono divaricati i discorsi, credo.
I teatri, quelli di periferia in particolare, evidenziano un grave errore delle sinistra, nel non averli sostenuti ed alimentati. Io li consideravo le nuove 'case del popolo', dei luoghi di riferimento,... dove incontrarsi , scambiarsi opinioni, assistere a delle prove, vedere degli spettacoli, ascoltare della buona musica, leggere un buon libro....
Le persone che hanno fatto IL Teatro, sono tante, ogni grande attore ha normalmente dietro di se un buono e bravo organizzatore, amministratore o altro. Penso a Savoldi, l'amministratore di Franco Parenti o a Franca Rame, senza di lei non esisterebbe Dario Fo. Lo ha alimentato e sostenuto.
Ma cosa dovrebbero essere i teatri di oggi...

venerdì 30 luglio 2010

il contributo di Massimo Talone....

che ringrazio della sua scrittura "di getto" lucida e incisiva

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Una riflessione, uno spunto ... suscitato dalle parole di Sabina.
Avverto che la diatriba sul teatro, gira ancora oggi intorno a due macrovisioni del fenomeno in se.
Una mazziniana, ottocentesca, ancora diffusa e praticata all’interno di Istituzioni, figure nostalgiche, politici, che ancora oggi pensano il teatro come lo strumento della propria rappresentazione, come strumento di potere locale, come salotto per manifestare se stessi nei confronti della comunità locale. E allora, assistiamo a fenomeni in cui - dalla gestione delle sale, alle programmazioni, al rapporto con gli stessi territori (urbani o meno) tutto diventa formale, salottiero, 'mondano', tutto segue un protocollo che divide, allontana e non unisce, secondo tra l’altro un principio che ancora oggi vorrei definire classista e verticale che fa del teatro ‘il luogo dell’evento eccezionale’ e non del normale desiderio di essere.

Un' altra macrovisione che resiste, si rinnova grazie ai flussi del pensiero generazionale, molto diversa di generazione in generazione (le precedenti sono state sicuramente più ideologiche, ma non per questo oggi sono meno incisive), che sviluppa pensiero di ricerca, di socialità, di orazione civile (come alcuni la definiscono), di dubbio e confronto.
Sostanzialmente direi orizzontale, quindi meno formale, meno mondana, meno istituzionale nel senso più arcaico del termine, che malgrado tutto resiste, continua a dare segni di evidente vitalità, genera modelli gestionali e artistici, produce ed evidenzia giovani e nuovi talenti.
Ma malgrado tutto viene resa trasparente dalle procedure istituzionali, dalle leggi regionali, dalle dinamiche di relazione locale nei territori, quindi messa costantemente in angolo talvolta quasi a segnalarne un senso di fastidio.
E’ un modo di fare teatro che non trovi generalmente nei cartelloni dei Teatri comunali, degli stabili, dei circuiti locali e regionali (che invece si auto alimentano attraverso le politiche dello scambio, del baratto, ancora oggi del borderò ‘artificiale’), è quella teatralità che da almeno 60 anni vive di un semplice e necessario concetto e che fa di necessità virtù (non faccio l’elogio della povertà!), quella comunità teatrale, che affonda le radici nelle cantine romane, nei luoghi di sperimentazione torinesi o in quelli milanesi, nella generosità nella militanza di Giuseppe Bartolucci, nei festival di strada, di sperimentazione, di ricerca, di figura, o sulla multimedialità, e che ha dato al teatro italiano degli ultimi 60 anni appunto, le intelligenze e le sensibilità poetiche e le professionalità (dirigenziali, organizzative e maestranze) più capaci e competenti di cui si può avere memoria recente.
Eppure questa macrovisione del teatro (per tagliar corto), dava, sta dando e probabilmente darà fastidio.
Dico questo perché il male del teatro italiano, oggi come già dall’immediato dopo guerra del secolo scorso, non sono solo i costanti ed estenuanti tagli, piuttosto insieme a questo tutte le conseguenze a cascata dovute alle cose che ho segnalato, legate alla prima macrovisione del teatro.

Aggiungerei una domanda da rivolgere a Istituzioni e Amministratori pubblici:
Come sono spesi normalmente i soldi (pochi certo ma importantissimi) dai mandatari messi a gestire i Teatri comunali, i circuiti locali, regionali, le fondazioni ad personam ...
Tutti ruoli insediati per ragioni politiche e non per competenze, curricula, sensibilità artistiche o esperienze svolte. Tutti, tantissimi uomini e donne, funzionari e/o fanteria messi sedute/i su poltrone fondamentali, strategiche, piazzati negli anni dai diversi orientamenti politici di una parte o dell’altra a gestire l’offerta culturale e teatrale del nostro paese. Impuniti che oggi dovrebbero sentirsi a disagio per come è lo scenario che stiamo attraversando e avere una gratitudine immensa verso le comunità che garantiscono (loro malgrado) questi posti di lavoro. Persone che arrivano da altre e lontane esperienze, che del teatro non sanno spesso nulla e nemmeno lo vivono nel loro privato, capaci di sostenere in maniera disciplinata le direttive dello schieramento politico o del partito’ senza discutere (pazzesco dirlo ma stiamo parlando di una capillarità immensa di poltrone e posti di lavoro che si sviluppa fino ai più remoti territori circoscrizionali).

Allora, ripeto la domanda:
Come vengono spese queste risorse pubbliche?
Ora mi domando e provo ad immaginare cosa significa questa organizzazione piramidale e capillare dell’universo del teatro italiano, cosa voglia dire togliere al teatro la sua vocazione naturale, la sua funzione storica e sociale e trasformarlo in una costante e meticolosa azione di strumentalizzazione per mediocri strategie politiche, fino alle meschinità più assolute a cui ancora oggi assistiamo nella provincia italiana.
Questa pochezza che in larga parte è ancora la normalità nei teatri italiani, bene questa è in larga parte il teatro italiano ancora oggi più diffuso, in quella macrovisione del Teatro Salotto. Ne sono nati anche in periferia, di teatri salotti negli ultimi decenni proprio in queste logiche di aprire cattedrali nel deserto senza una visione a lunga gittata ma al più limitata a fine mandato.

Ecco allora che tutto stride, che in Italia non nascono vere scuole di teatro, che non si fa formazione del pubblico, che il teatro e la scuola ancora oggi sono azioni di deportazione dei bambini in luoghi chiassosi, caotici, con spettacoli in falsetto e produzioni malate, ecco ancora perché il teatro continua a rappresentare non la realtà ma una nostalgica visione otttocentesca della realtà, nella maggior parte dei casi.
Talvolta penso forse è meglio che ci sono i tagli perché questo favorisce chi in realtà non ha nulla da perdere, perché nulla gli è comunque concesso.
Però d’altro canto è vero che resistono, che aprono, che assistiamo ancora oggi ad esperienze teatrali, fatte di sacrificio e utopia, di ricerca e dubbio, di competenze e spontaneità. Che sostengono laboratori di formazione, di produzione, percorsi di approfondimento autofinanziato, che riescono ad agganciarsi ad esperienze Europee e trovare sostegno attraverso contributi FSE, piuttosto che bandi di fondazioni bancarie, senza troppo porsi il problema dei rapporti con le Istituzioni e gli Enti locali, perché è ormai diffusa e praticata la consapevolezza della distanza tra la autoreferenzialità dell’amministrazione pubblica e la vita reale e quindi si va a cercare altrove direttamente.
Ecco questi modi di pratica ancora oggi diffusissima di Teatro clientelare, non vanno mai dimenticati, anzi vanno evidenziati e costantemente denunciati pubblicamente ...

Proprio perché queste modalità fanno parte ormai dei mali del teatro italiano, se affrontiamo qualsiasi discussione, riflessione, azione dialettica non tenendo conto di queste faccende, non aiutiamo il teatro, non svisceriamo i problemi di cui parla Sabina, sui quali mette l’accento, ma che sono diffusi, praticati, in ogni parte del nostro teatro e del nostro programmare (o non programmare) offerta culturale, di cui c’è traccia evidente nel pezzo di Carlo Infante del 1996, 14 anni fa, ...
allora forse le parole fondamentali sono ancora oggi programmazione, pratica diffusa, relazione, conoscenza, rispetto del pubblico ... e non politica, strategia, rincorsa, numeri ...

Carlo Infante su Giuseppe Bartolucci (1996)

Il nomadismo culturale di Giuseppe Bartolucci, maestro di critica militante.

E' con la scomparsa di una persona, e ancor di più con quella di un maestro, che emerge drasticamente il senso di vuoto creato dalla sua assenza. Non è retorica emozionale. O perlomeno non vuole esserlo.

Il fatto è che la morte di Giuseppe Bartolucci , e ancor prima il suo ictus, è giunta come a suggellare in modo irreversibile la fine di un'era, quella dell'avanguardia teatrale.

Quell'area di ricerca che in Italia, più che in altri Paesi, raggiunse livelli altissimi di complessità . Un gioco spesso estremo e spregiudicato che in quei tempi, tra gli anni Settanta e gli Ottanta, vide una straordinaria quantità e qualità di forze in campo. Una condizione impossibile oggi se non su altri piani, molto meno ideologici, non più definibili quindi in quanto "avanguardia".

In quel contesto vi si rispecchiò la conflittualità e ancor di più l'antagonismo di cui era pervasa la società italiana, liberando però energie che proprio grazie a ciò fecero del teatro più di un 'arte : un atto di sfida, un comportamento diffuso , un linguaggio collettivo, un modello immaginario, un contagio.

Giuseppe Bartolucci di quel mondo fu non solo un critico di riferimento ma un terminale di sensibilità, il fulcro di un pensiero e di un'operatività che fa venire in mente le figure di Marinetti per il Futurismo e di Breton per il Surrealismo, come ha suggerito Lorenzo Mango.

Non è esagerazione. Siamo con Mango nel riconoscere a Bartolucci la capacità di dare un senso ancora più pregnante alla funzione del "critico militante", una qualità che va ben oltre la pratica analitico-giornalistica. Si tratta di quella funzione proiettiva in grado di contestualizzare un atto teatrale in una tendenza evolutiva , valorizzando più l'intuizione , l'idea germinale, che la risoluzione formale. Una proiezione capace di colmare con uno sguardo strategico le mancanze, contribuendo così a dare valore sostanziale a quell'arte dello spettatore che fa del teatro un evento di "percezione condivisa".

Un'attitudine che tende a superare il principio stesso del punto di vista per dare vita a qualcosa che potremmo definire, giocando con le parole, "punto di vita". Qualcosa che procede attraverso la forte adesione personale ad un evento esistenziale qual'è il teatro nell'arco di uno spazio-tempo condiviso realmente.

E' grazie al valore di questo scambio che la "postavanguardia" si è fatta, più che tendenza teatrale, movimento a tutti gli effetti, contribuendo alla formazione di una generazione di spettatori affinati alla ricerca di nuove forme espressive in grado d'interpretare la contemporaneità. Bartolucci creò le opportunità (rassegne, convegni, workshop) in cui si è sviluppato questo patto di sensibilità tra autori e spettatori, creando così un alveo fertile , un ecosistema, per esperienze che con la loro "invisibilità" , la loro incompiutezza formale , difficilmente sarebbero sopravvisute nel mercato teatrale. A differenza di oggi, in cui i cosiddetti "teatri invisibili" non trovano attenzioni se non paternalistiche, allora, in città come Roma e come Napoli in particolare, i giovani gruppi riuscivano ad entrare in quelle "zone autonome" partecipando ad un clima di scambio intellettuale, di confronto, che si sarebbe tradotto in progettualità teatrale.

Era la fine degli anni Settanta e la componente più creativa di una generazione alla deriva postideologica di quegli anni di piombo trovò in quelle performances metropolitane un'occasione importante per sopravvivere al presente, per riattivare delle valenze ideali destinate al riflusso.

Ad alcuni questo punto di vista parrà parziale, condizionato da un'emotività soggettiva, la mia (basti sapere che allora ero il critico teatrale di Lotta Continua), tesa ad evocare solo alcuni aspetti particolari. Ma non è solo questo.

Lo stesso ruolo di Bartolucci è comprensibile alla luce di quella situazione: in quella sua capacità di agitatore intellettuale , capace quindi di entrare in relazione con una generazione di autori e spettatori a nervi scoperti, furiosi e delusi. Il suo pensiero teatrale di rabdomante, grande nomade culturale qual'era, appare oggi come un presagio: andare oltre l'avanguardia per fare anche del "nuovo" una tradizione.

il commento di Caterina Casini...

Ricordo Beppe Bartolucci, come sapeva mettere in evidenza i nostri gesti le nostre parole , e gli dava un valore di cui noi eravamo del tutto inconsapevoli.

le parole di Andrea Camilleri...



"...il teatro è il pronto soccorso della nostra coscienza, della nostra anima, della nostra voglia di sapere..."

ancora io (Sabina de Tommasi)...

L'intervento di Silvio Bastiancich sollecita il ricordo - a mio avviso - della figura di Giuseppe Bartolucci: un maestro per tanti di noi.
La sua visione - lucida e provocatoria - di un teatro sempre strettamente collegato con il contesto urbano, socio-culturale; un teatro che crea un tessuto di relazioni; un teatro espresso dalla Pubblica Amministrazione con le modalità del servizio, al pari dei trasporti e della raccolta dell'immondizia; un teatro aperto ai linguaggi della contemporaneità, ma anche alla sperimentazione di approcci differenziati (scuola, bambini, anziani, gruppi organizzati).
Sicuramente questa è stata la mia formazione. E questo è stato (ovviamente tenendo conto dei decenni passati) il tentativo romano dei teatri di cintura, orgogliosamente finanziati e gestiti dalla P.A.
Arrivando al Quarticciolo avevo ben presente l'esperienza dei centri 7 , 8 ecc. promossi proprio da Bartolucci con il Teatro di Roma alla fine degli anni settanta.
Mi ha emozionato che quella esperienza fosse ancora viva nella memoria di alcune persone che hanno partecipato nel dicembre 2007 (proprio pochi giorni prima dell'apertura di TBQ) ad una riunione della commissione cultura del VII municipio. In particolare l'intervento di Remo dell'Associazione Antropos.
Non credo che si possa continuare in eterno a disattendere le aspettative di tutti quelli che sono stati coinvolti in queste esperienze, e che in questi luoghi - restituiti ad una cittadinanza attiva - hanno costruito un nuova rete di relazioni, di scambi, di emozioni.

il contributo di Silvio Bastiancich...

Condivido la riflessione di Stefania e aggiungo:

Il DRAMATURG

Gli echi dei primi fermenti del movimento del '68, accompagnati dalle prime espressioni significative del teatro sperimentale, avevano trovato un segno compiuto nel cosiddetto Mani...festo di Ivrea; si denunciava lo stato di degrado del teatro italiano dal punto di vista politico, organizzativo e soprattutto dei linguaggi. Gli artisti cercavano nuovi modelli di creazione culturale. L'effetto concreto di questa ricerca sfocerà nell'intervento diretto nel corpo vivo della società: un laboratorio permanente punto d'incontro della collettività - un teatro senza pareti - nel quale doveva essere eliminato qualsiasi diaframma tra palcoscenico e platea.
La forma della autogestione, attraverso la creazione di cooperative culturali, si rivelerà lo strumento attraverso cui gli attori assumeranno il controllo totale del proprio lavoro: parità di diritti e di doveri, partecipazione di tutti alle scelte artistiche, culturali, economiche e organizzative e alla loro realizzazione.
Un'esperienza che ha dato agli artisti di quella generazione l'opportunità di sperimentarne una nuova 'scrittura scenica unitaria' nella quale i vari elementi che contribuivano alla sua attuazione (scrittura drammaturgica, regia, interpretazione, scenografia, musica, luci, spazio scenico e architettura) si ricomponevano in un unico insieme. Un progetto che prevedeva il 'teatro come servizio pubblico' capace di modificare il processo di promozione, distribuzione e diffusione del prodotto teatrale anche attraverso una radicale riforma delle strutture organizzative.
Anche da questa esperienza nasce la professione del dramaturg. Dramaturg è l'arte del mettere in relazione i luoghi, i territori, le persone più diverse. Una professionalità basata sulla visione di una drammaturgia espansa che, a partire da una riflessione più strettamente legata alla messa in scena, si amplierà fino a introdursi in maniera virale in altri territori apparentemente e non direttamente collegabili all’area di azione della drammaturgia stessa dove il dramaturg si materializzerà in un altrove cangiante. Un pensiero e una pratica dove interverranno anche scrittori, progettisti, traduttori, urbanisti, musicisti, curatori, cineasti, disegnatori di fumetti, programmatori fino ad arrivare a figure professionali che si occupano dell’amministrazione della città. Arte del network e del collettivo dove grande importanza sarà data alla necessità continua di creare spazi del pensiero, spazi fisici, spazi della rete. Dove ogni luogo, qualunque luogo, è importante e ricco di possibilità. Conseguentemente ogni persona è unica e irriproducibile. In una quotidianità che fa dell’arte dell’ascolto una pratica indispensabile.

il contributo di Stefania Fabri....

La riflessione di Sabina mi trova ovviamente in sintonia e vorrei aggiungere soltanto una notazione che può sembrare più tecnica ma che non è solo tecnica. I teatri di cintura hanno bisogno secondo me non soltanto di un'ottima gestione e de...ll'impegno del personale che vi lavora ma hanno necessità soprattutto di una figura precisa di "mediatore culturale", una figura cioè in grado di interagire con l'utenza dei teatri che non è solo 'pubblico' vale a dire 'spettatore', ma anche gruppi del territorio, scuole ecc. e al tempo stesso con la produzione teatrale contemporanea, con le esperienze significative e coinvolgenti che qualificano la contemporaneità. Sabina ha svolto benissimo per il Quarticciolo questo ruolo che ora manca clamorosamente. Maddalena Fallucchi, che purtroppo ci ha lasciato, lo ha svolto per Tor Bella Monaca. Entrambe con professionalità, passione e garbo.

domenica 25 luglio 2010

Teatri che aprono, teatri che chiudono... Tutti quelli che ci lavorano dentro e accanto....... e poi penso alla Nunzi...

Leggo della prossima apertura di due nuovi teatri di cintura nella capitale. Già iniziano le polemiche. Immediamente rilanciate dai giornali.
Penso a tutti quelli che nei teatri ci lavorano. Quotidianamente e sommessamente. A quelli che li tengono aperti, malgrado tutto. A quelli che li progettano; ma anche a quelli che li tengono puliti e accoglienti; a quelli che li programmano e si fanno venire belle idee; a quelli che ascoltano il pubblico; insomma a quelli che li amano e se ne prendono cura.
Un teatro - ogni teatro - ma in particolare quelli di periferia, per prima cosa crea aspettative, solletica la curiosità, rimette in pista la voglia di uscire di casa, stare con gli altri, a parlare, a ragionare (una cosa già di per sé grandiosa e rivoluzionaria!!)
Se un teatro si apre, poi non si può chiudere, o lasciar morire lentamente nell'incuria e nel disinteresse.

Per tutto il pubblico che in questi anni è uscito di casa per andare nei teatri di cintura, per ascoltare storie, per condividere emozioni... beh! spero che i teatri di cintura diventino 10 e 20, ma tutti APERTI, FUNZIONANTI, ACCOGLIENTI. Luoghi aperti a tutti, da CONDIVIDERE con tutti.

Mentre scrivo mi viene in mente la Nunzi, il suo ardore e rigore. Il suo darsi senza riserve. E' stato un grande privilegio per me lavorare con lei.
E penso che di teatro qualche volta ci si ammala, e qualche volta si muore. E' successo, succede, succederà. Le preoccupazioni, le incazzature, i trabocchetti, le speranze rincagnate in un angolo qualche volta sono troppo dure da sopportare.
Nella sua biografia e nel suo modo di lavorare c'è tanto di quello che ci aspettiamo dal teatro.

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Per chi non avesse conosciuto la Nunzi, o per chi avesse voglia di ricordarla, copio qui sotto le parole che su di lei ha scritto Gianfranco Capitta su Il Manifesto del 16 giugno 1998:
La Nunzi se n’è andata. Il suo nome era Maria Annunziata Gioseffi, ma tutti, a cominciare da lei stessa, usavano chiamarla la Nunzi. A 52 anni, è stata consumata da una malattia terribile che in poco più di un anno l’ha stroncata, anche se lei aveva reagito al male con durezza assoluta, lavorando in modo accanito fino a poche settimane fa.
Al pubblico questo nome non dirà forse molto, ma la Nunzi è una figura non secondaria del teatro italiano; in particolare negli ultimi quindici anni, in cui era assistente di Luca Ronconi. Per lavorare con lui, per la sua idea di teatro, aveva lasciato la sua Firenze, le sue amicizie, i suoi rapporti, e trascurato perfino la sua bellezza altera. L’aveva seguito prima a Torino e poi a Roma, del cui teatro pubblico aveva assunto infatti tutte le deleghe tecniche e organizzative.
Aveva un polso d’acciao la Nunzi, ma sapeva essere, quando voleva, anche dolcissima e spiritosa. Era capace di interessarsi ad aspetti quasi ininfluenti, anche se per la sua attività era abituata a lavorare ai massimi livelli, con istituzioni teatrali e operistiche di mezza Europa. Lei non aveva mai perso la concretezza e lo spirito mordace dei quartieri fiorentini, dove lei, nata a Modena praticamente per caso, era cresciuta. E in quella città, se non avesse avuto il tarlo del teatro, avrebbe fatto sicuramente carriera in società.
Aveva lavorato al Teatro regionale toscano quando questo ancora era un ente di rilevanza internazionale, e poi proprio per suo conto aveva seguito e curato (una impresa per nulla facile) l’esperienza fiorentina di Tadeusz Kantor. L’incontro con Ronconi sulla scena di uno Schnitzler realizzato a Prato, avrebbe cambiato definitivamente la sua vita. Una mutazione totale e totalitaria, in nome e alla luce di un progetto che, amava ripetere, la affrancava dalla mediocrità di molta parte del teatro pubblico in Italia (meglio di quanti direttori attuali avrebbe potuto dirigerne!!). Anche se poi non si tirava indietro, deponendo momentaneamente puntiglio e testardaggine, davanti alle inevitabili e necessarie mediazioni. E le miserie dell’evoluzione del PCI erano un altro suo irrestistibile racconto.
Grande manager e dotata di un gusto sicuro, un naso che non sbagliava quasi mai, era la Nunzi a rendere possibile il lavoro di Ronconi, creandogli e difendendogli in questi ultimi anni la serenità necessaria per creare. Lo schermava dalla burocrazia e dalla politica, dai postulanti e dall’invadenza. Perché in quelle creazioni si riconosceva e viveva anche lei, in prima persona. Mancherà a molte persone la Nunzi, burbera e spiritosa, modesta e discreta, ma esigentissima e rigorosa con sé come con gli altri.

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l'ultima lacrima per Maddalena Fallucchi. il Teatro Tor Bella Monaca e tutto il suo pubblico hanno una marcia in più grazie al suo impegno e al suo entusiasmo. non dimentichiamolo!

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il commento di Valeria Orani...

grazie per averci ricordato la Nunzi, e grazie per la tua nota. In questo periodo non bello per la cultura e per il teatro in particolar modo, fa bene ricordare che non siamo soli nelle nostre lotte. Sono sempre più convinta che la nostra professionalità è legata alla passione per questo lavoro, e che tale passione passa per la gioia di creare l'agio per gli artisti che lavorano con noi e per il pubblico che fruisce il loro lavoro. noi siamo quelli che operano oltre il "dietro le quinte" siamo quelli che hanno scelto di essere invisibili e che riscuotono il loro successo quando non si sente la loro mancanza.

mercoledì 21 luglio 2010

in attesa di una risposta.......

Jova&Friends hanno scritto a Bondi: "Usare subito il milione di Domani"

Domani 21 Aprile 2009 Artisti uniti per l'Abruzzo

Tra le nuvole e i sassi/ passano i sogni di tutti
passa il sole ogni giorno/ senza mai tardare.
Dove sarò domani?
Dove sarò?
Tra le nuvole e il mare/ c'è una stazione di posta
uno straccio di stella messa lì a consolare
sul sentiero infinito
del maestrale
Day by day/ Day by day
hold me/ shine on me.
shine on me
Day by day save me shine on me
Ma domani, domani,/ domani, lo so
Lo so che si passa il confine,
E di nuovo la vita
sembra fatta per te
e comincia
domani
domani è già qui

rap 1 Estraggo un foglio nella risma nascosto
scrivo e non riesco forse perché il sisma m?ha scosso

rap 2 Ogni vita che salvi, ogni pietra che poggi, fa pensare a domani ma puoi farlo solo oggi

e la vita la vita si fa grande così
e comincia domani
Tra le nuvole e il mare si può fare e rifare
con un pò di fortuna
si può dimenticare.
Dove sarò
domani? Dove sarò?

rap 3 Dove sarò domani che ne sarà dei miei sogni infranti, dei miei piani/ Dove sarò domani, tendimi le mani, tendimi le mani

Tra le nuvole e il mare
si può andare e andare
sulla scia delle navi
di là del temporale
e qualche volta si vede
domani
una luce di prua
e qualcuno grida: Domani

rap 4 Come l'Aquila che vola
libera tra il cielo e i sassi siamo sempre diversi e siamo sempre gli stessi
hai fatto il massimo e il massimo non è bastato e non sapevi piangere e adesso
che hai imparato non bastano le lacrime ad impastare il calcestruzzo
eccoci qua cittadini d'Abruzzo
e aumentano d'intensità le lampadine una frazione di
secondo prima della finee la tua mamma,
la tua patria da ricostruire,
comu le scole, le case e specialmente lu core
e puru nu postu cu facimu l'amore

non siamo così soli
a fare castelli in aria
non siamo così soli
sulla stessa barca
non siamo così soli
a fare castelli in aria
non siamo così soli
a stare bene in Italia
sulla stessa barca
a immaginare un nuovo giorno in Italia.
Tra le nuvole e il mare si può andare, andare
Sulla scia delle navi di là dal temporale
Qualche volta si vede una luce di prua e qualcuno grida, domani
Non siamo così soli

Domani è già qui
Domani è già qui

Ma domani domani, domani lo so, lo so, che si passa il confine
E di nuovo la vita sembra fatta per te e comincia domani
Tra le nuvole e il mare, si può fare e rifare
Con un pò di fortuna si può dimenticare
E di nuovo la vita, sembra fatta per te
E comincia
domani
E domani domani, domani lo so
Lo so che si passa il confine
E di nuovo la vita sembra fatta per te
E comincia domani
Domani è già qui, domani è già qui

venerdì 9 luglio 2010

Le librerie indipendenti/intraprendenti del Lazio


Estate. Per molti periodo di viaggi, tragitti, percorsi, scoperte, riflessioni, letture....
rilanciamo l'ampia bibliografia PAROLE DA VIAGGIO realizzata in occasione della lettura condivisa del 23 aprile scorso a TBQ.
Se abiti nel Lazio e sei interessato all'acquisto di uno o più titoli ti consigliamo di farlo in una libreria intraprendente. Le trovi censite sul sito LILIBRI.IT




immagine Tiziana Piccone

mercoledì 7 luglio 2010

Walter Benjamin, la sua valigia, 2 viaggi

Walter Benjamin, filosofo, scrittore e critico letterario tedesco. Nato a Charlottenburg il 15 luglio 1892, morto a Portbou il 26 settembre 1940.
Il 21 luglio 1915, a Berlino, avviene il primo incontro con Gershom Scholem, col quale stringerà una profonda amicizia e un saldo legame intellettuale. Scholem, che abbandonerà poco dopo gli studi di matematica e filosofia per dedicarsi allo studio della mistica ebraica, favorirà l'avvicinamento di Benjamin agli studi sull'ebraismo e un'analisi approfondita del rapporto tra l'ebraismo e la filosofia.
Il 27 giugno del 1919 si laurea summa cum laude in filosofia discutendo una tesi su Il concetto di critica nel primo romanticismo tedesco.
Gli anni dal 1920 al 1927 sono anni di grande impegno intellettuale; conosce Ernst Bloch, Franz Rosenzweig, Theodor W. Adorno, Erich Fromm. Nel 1924 aveva conosciuto Asja Lacis, una regista rivoluzionaria lettone con la quale inizierà un rapporto intellettuale e sentimentale che sarà determinante per la sua decisa svolta in senso marxista e comunista.
Nel 1928 stringe un'altra importante amicizia anch'essa determinante per la sua ulteriore evoluzione intellettuale: incontra e si lega a Bertolt Brecht. A partire dagli anni trenta si avvicina all'Istituto per la ricerca sociale diretto da Max Horkheimer, con il quale i rapporti si faranno più intensi a partire dal 1934-1935.
Ormai stabilitosi a Parigi, nel settembre del 1939, allo scoppio della guerra, viene internato in un campo di lavori forzati in quanto cittadino tedesco.
Il 14 giugno del 1940 Parigi è occupata dai tedeschi. Benjamin fugge verso la Spagna nel tentativo di varcare il confine per raggiungere una località di mare e imbarcarsi verso gli USA dove già si erano rifugiati i suoi amici dell'Istituto per la ricerca sociale, tra cui Theodor W. Adorno.
Nella notte del 25 settembre del 1940, presso la località di Port Bou nella Catalogna spagnola, nel tentativo di sfuggire alla probabile cattura da parte della polizia di frontiera spagnola e alla conseguente espulsione dalla Spagna verso il territorio francese, ormai saldamente nelle mani dell'esercito nazista, Benjamin decide di togliersi la vita ingerendo della morfina. Aveva con sé una valigia nera che custodiva gelosamente, in cui erano contenuti probabilmente dei manoscritti o delle pagine incompiute. Il giorno dopo ai suoi compagni di viaggio sarebbe stato permesso di proseguire per la loro destinazione. Altri suoi amici provvidero alla sua tumulazione nel cimitero di Port-Bou, pagando il fitto del loculo per soli cinque anni. Dopo tale periodo non si sa dove possa essere finito il suo corpo, né la sua valigia nera fu mai più ritrovata. Oggi a Portbou esiste un memoriale che ricorda la figura di Walter Benjamin.

THE BENJAMIN BRIEFCASE PROJECT

Un progetto on site/on line/on air per ricordare Walter Benjamin, a 70 
anni dalla sua morte, e tutti quelli che, come lui, hanno attraversato e attraversano i confini nazionali da clandestini.
Il progetto ha due dimensioni:
Riscoprire il sentiero usato da Benjamin e da centinaia di clandestini per scappare dalla Francia, riscoprirne la storia e il territorio in cui è immerso.
Ricordare Benjamin attraverso un’installazione invisibile: una valigia nella terra e un blog nella rete.
Il 3 luglio 2010 un gruppo di ricercatori, videomaker, musicisti,
 architetti, fotografi, registi, amici, si sono messi in cammino per 
ripercorrere la route Lister (già utilizzata dai Repubblicani spagnoli in fuga dal Franchismo), il sentiero che Benjamin usò per passare clandestinamente 
in Spagna e proseguire per gli Stati Uniti, per i quali Theodor Adorno 
gli aveva procurato un visto. Seguendo la descrizione del sentiero 
fatta da Luisa Fittko, la donna che aiutò il filosofo a passare il 
confine, hanno ricostruito – camminandolo – il percorso seguito da 
Benjamin durante la fuga. Nella notte tra il 3 e il 4 luglio si sono accampati ai piedi dei Pirenei, cercando lo stesso punto dove Benjamin passò la 
notte tra il 24 e il 25 settembre 1940.
Lassù Francesco Guerri, violoncellista, ha suonato per Benjamin e in quel punto hanno sotterrato 
una vecchia valigia di pelle, simile a quella che
 Benjamin portava con sé quella notte, per trasformare quel luogo in 
una “zona sensibile”, un luogo per ricordare il filosofo tedesco e tutti quelli
 che da lì passarono, in fuga dal nazismo.

lunedì 5 luglio 2010

una segnalazione di lettura per questa stravagante estate piena di colpi di scena e cambiamenti repentini (di tempo sì, ma anche di equilibri interni e internazionali ...)
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di Andrea Bocconi " Di buon passo" edizioni Guanda.
una lunga camminata tra Umbria e Toscana, sulle orme di San Francesco, compiuta e scritta come un diario dallo stesso personaggio/autore. Un modo silenzioso di guardarsi dentro ...