Un progetto di Sabina de Tommasi per il Teatro Biblioteca Quarticciolo di Roma

Il progetto si è sviluppato da febbraio a maggio 2010.
Questo blog è stato creato per riportare le varie tappe dei laboratori;
elencare le bibliografie costruite insieme ai partecipanti; mostrare foto e video;
dare modo di ascoltare la lettura dei brani scelti.

Dal 25 luglio al 12 agosto 2010 ha accolto alcune riflessioni e provocazioni sul tema dei teatri di cintura e in generale sul lavoro teatrale e culturale decentrato.
Ora vuole segnalare curiosità, percorsi di lettura, suggestioni, appuntamenti, tracce originali dei nostri viaggi. Mandate i vostri suggerimenti a tracciatidiviaggi@gmail.com

La serata di lettura condivisa di quest'anno al Teatro Biblioteca Quarticciolo si è tenuta il 21 aprile 2011. Titolo STORIE MINIME.



venerdì 30 luglio 2010

il contributo di Massimo Talone....

che ringrazio della sua scrittura "di getto" lucida e incisiva

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Una riflessione, uno spunto ... suscitato dalle parole di Sabina.
Avverto che la diatriba sul teatro, gira ancora oggi intorno a due macrovisioni del fenomeno in se.
Una mazziniana, ottocentesca, ancora diffusa e praticata all’interno di Istituzioni, figure nostalgiche, politici, che ancora oggi pensano il teatro come lo strumento della propria rappresentazione, come strumento di potere locale, come salotto per manifestare se stessi nei confronti della comunità locale. E allora, assistiamo a fenomeni in cui - dalla gestione delle sale, alle programmazioni, al rapporto con gli stessi territori (urbani o meno) tutto diventa formale, salottiero, 'mondano', tutto segue un protocollo che divide, allontana e non unisce, secondo tra l’altro un principio che ancora oggi vorrei definire classista e verticale che fa del teatro ‘il luogo dell’evento eccezionale’ e non del normale desiderio di essere.

Un' altra macrovisione che resiste, si rinnova grazie ai flussi del pensiero generazionale, molto diversa di generazione in generazione (le precedenti sono state sicuramente più ideologiche, ma non per questo oggi sono meno incisive), che sviluppa pensiero di ricerca, di socialità, di orazione civile (come alcuni la definiscono), di dubbio e confronto.
Sostanzialmente direi orizzontale, quindi meno formale, meno mondana, meno istituzionale nel senso più arcaico del termine, che malgrado tutto resiste, continua a dare segni di evidente vitalità, genera modelli gestionali e artistici, produce ed evidenzia giovani e nuovi talenti.
Ma malgrado tutto viene resa trasparente dalle procedure istituzionali, dalle leggi regionali, dalle dinamiche di relazione locale nei territori, quindi messa costantemente in angolo talvolta quasi a segnalarne un senso di fastidio.
E’ un modo di fare teatro che non trovi generalmente nei cartelloni dei Teatri comunali, degli stabili, dei circuiti locali e regionali (che invece si auto alimentano attraverso le politiche dello scambio, del baratto, ancora oggi del borderò ‘artificiale’), è quella teatralità che da almeno 60 anni vive di un semplice e necessario concetto e che fa di necessità virtù (non faccio l’elogio della povertà!), quella comunità teatrale, che affonda le radici nelle cantine romane, nei luoghi di sperimentazione torinesi o in quelli milanesi, nella generosità nella militanza di Giuseppe Bartolucci, nei festival di strada, di sperimentazione, di ricerca, di figura, o sulla multimedialità, e che ha dato al teatro italiano degli ultimi 60 anni appunto, le intelligenze e le sensibilità poetiche e le professionalità (dirigenziali, organizzative e maestranze) più capaci e competenti di cui si può avere memoria recente.
Eppure questa macrovisione del teatro (per tagliar corto), dava, sta dando e probabilmente darà fastidio.
Dico questo perché il male del teatro italiano, oggi come già dall’immediato dopo guerra del secolo scorso, non sono solo i costanti ed estenuanti tagli, piuttosto insieme a questo tutte le conseguenze a cascata dovute alle cose che ho segnalato, legate alla prima macrovisione del teatro.

Aggiungerei una domanda da rivolgere a Istituzioni e Amministratori pubblici:
Come sono spesi normalmente i soldi (pochi certo ma importantissimi) dai mandatari messi a gestire i Teatri comunali, i circuiti locali, regionali, le fondazioni ad personam ...
Tutti ruoli insediati per ragioni politiche e non per competenze, curricula, sensibilità artistiche o esperienze svolte. Tutti, tantissimi uomini e donne, funzionari e/o fanteria messi sedute/i su poltrone fondamentali, strategiche, piazzati negli anni dai diversi orientamenti politici di una parte o dell’altra a gestire l’offerta culturale e teatrale del nostro paese. Impuniti che oggi dovrebbero sentirsi a disagio per come è lo scenario che stiamo attraversando e avere una gratitudine immensa verso le comunità che garantiscono (loro malgrado) questi posti di lavoro. Persone che arrivano da altre e lontane esperienze, che del teatro non sanno spesso nulla e nemmeno lo vivono nel loro privato, capaci di sostenere in maniera disciplinata le direttive dello schieramento politico o del partito’ senza discutere (pazzesco dirlo ma stiamo parlando di una capillarità immensa di poltrone e posti di lavoro che si sviluppa fino ai più remoti territori circoscrizionali).

Allora, ripeto la domanda:
Come vengono spese queste risorse pubbliche?
Ora mi domando e provo ad immaginare cosa significa questa organizzazione piramidale e capillare dell’universo del teatro italiano, cosa voglia dire togliere al teatro la sua vocazione naturale, la sua funzione storica e sociale e trasformarlo in una costante e meticolosa azione di strumentalizzazione per mediocri strategie politiche, fino alle meschinità più assolute a cui ancora oggi assistiamo nella provincia italiana.
Questa pochezza che in larga parte è ancora la normalità nei teatri italiani, bene questa è in larga parte il teatro italiano ancora oggi più diffuso, in quella macrovisione del Teatro Salotto. Ne sono nati anche in periferia, di teatri salotti negli ultimi decenni proprio in queste logiche di aprire cattedrali nel deserto senza una visione a lunga gittata ma al più limitata a fine mandato.

Ecco allora che tutto stride, che in Italia non nascono vere scuole di teatro, che non si fa formazione del pubblico, che il teatro e la scuola ancora oggi sono azioni di deportazione dei bambini in luoghi chiassosi, caotici, con spettacoli in falsetto e produzioni malate, ecco ancora perché il teatro continua a rappresentare non la realtà ma una nostalgica visione otttocentesca della realtà, nella maggior parte dei casi.
Talvolta penso forse è meglio che ci sono i tagli perché questo favorisce chi in realtà non ha nulla da perdere, perché nulla gli è comunque concesso.
Però d’altro canto è vero che resistono, che aprono, che assistiamo ancora oggi ad esperienze teatrali, fatte di sacrificio e utopia, di ricerca e dubbio, di competenze e spontaneità. Che sostengono laboratori di formazione, di produzione, percorsi di approfondimento autofinanziato, che riescono ad agganciarsi ad esperienze Europee e trovare sostegno attraverso contributi FSE, piuttosto che bandi di fondazioni bancarie, senza troppo porsi il problema dei rapporti con le Istituzioni e gli Enti locali, perché è ormai diffusa e praticata la consapevolezza della distanza tra la autoreferenzialità dell’amministrazione pubblica e la vita reale e quindi si va a cercare altrove direttamente.
Ecco questi modi di pratica ancora oggi diffusissima di Teatro clientelare, non vanno mai dimenticati, anzi vanno evidenziati e costantemente denunciati pubblicamente ...

Proprio perché queste modalità fanno parte ormai dei mali del teatro italiano, se affrontiamo qualsiasi discussione, riflessione, azione dialettica non tenendo conto di queste faccende, non aiutiamo il teatro, non svisceriamo i problemi di cui parla Sabina, sui quali mette l’accento, ma che sono diffusi, praticati, in ogni parte del nostro teatro e del nostro programmare (o non programmare) offerta culturale, di cui c’è traccia evidente nel pezzo di Carlo Infante del 1996, 14 anni fa, ...
allora forse le parole fondamentali sono ancora oggi programmazione, pratica diffusa, relazione, conoscenza, rispetto del pubblico ... e non politica, strategia, rincorsa, numeri ...